Discorso di Luciano Montemauri alla Messa Commemorativa di Don R. Musaragno
Nel giorno del quarto anniversario della morte di Don Remigio Musaragno, il 20 giugno 2013, è stata celebrata una Messa nella Chiesa del Ss.mo Salvatore in Onda a via dei Pettinari, celebrata dai Vescovi Mons. Oscar Rizzato e Franco Croci e da Don Giuseppe Magrin del dicastero dell’Evangelizzazione dei Popoli, promossa dall'Associazione degli ex Studenti del Centro Giovanni XXIII, e dagli Studenti dello stesso Centro.
Lunedì sono stato al funerale di Rodrigo Jaimes Hidalgo nella Basilica di Santa Maria in Trastevere e ho rivisto là Don Remigio Musaragno con il suo sorriso di meraviglia, tra l’incredulo e il soddisfatto, a voler dire: “Bravo Rodrigo, ce l’hai fatta, ce l’hai fatta ancora!”.
Don Remigio era soddisfatto della magia di Rodrigo. Rodrigo era tenace nel presenzialismo allo spasmo, costante, coerente con il suo personaggio – era un personaggio! – che portava allegria, e forse anche un po’ di disagio per questa sua arte di sovrapporsi, magari, in una celebrazione religiosa per poter dire il suo credo costi quel che costi, con libertà, coerenza e una grande dose di dignità, e . . . . . e un po’ di lunghezza: prendeva tanto tempo per citare tutti quelli che per lui erano testimoni, artefici , esempi di quella solidarietà e di quell'ideale di “fraternidad” che egli voleva rappresentare, personificare e declamare. Sì, perché sappiamo della vena declamatoria che gli derivava dalla sua formazione forense.
Rodrigo era un miracolo vivente, anche perché come tutti qui sanno non aveva bisogno di soldi per essere veramente a fianco di ogni sofferente per qualsiasi necessità.
Negli anni del suo arrivo, eravamo nel 1965, Roma viveva l’atmosfera del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo, concluso proprio l’8 dicembre di quell’anno. Si viveva un respiro di grandi speranze, con operatori di Pace nel mondo come Giorgio La Pira, il Sindaco di Firenze, promotore degli Incontri Mediterranei, nei quali si trovarono per la prima volta a confronto rappresentanti di fazioni avverse, memorabile quella di personalità dell’Islam e della realtà ebraica, un vero miracolo che fino allora aveva dell’impossibile.
In tutto questo contesto Roma viveva una nuova realtà di presenze: erano gli universitari in Italia, che provenivano dai Paesi allora definiti “in via di sviluppo” per acquisire mete di alta professionalità, medici, ingegneri, agronomi e di ogni altra facoltà, per ritornare in Patria da protagonisti nella lotta contro il gap tecnologico.
Roma si confrontava per la prima volta con la presenza di questa nuova immigrazione e con i problemi dell’accoglienza di studenti, che se erano esteri per la provenienza, erano però a pieno titolo universitari nell’ambito degli atenei italiani.
Tra queste realtà di un’accoglienza del tutto particolare, l’UCSEI, primo di tutti, si poneva come Ufficio Centrale per Studenti Esteri in Italia, opera solidale e formativa dello studente estero nella realtà universitaria italiana, opera che proprio Don Remigio Musaragno incarnava con una solidarietà al di là delle religioni, delle razze e dei circoli di pensiero di appartenenza.
L’UCSEI rappresentava l’impegno della Chiesa: era nato nel dicastero missionario denominato di Propaganda Fide, godendo dell’appoggio incondizionato dei Papi, a partire dall’Apostolo della solidarietà fra i popoli di tutta la terra, Papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI, il Papa dell’Enciclica “Popolorum progressio”.
Tra queste realtà romane di accoglienza degli studenti esteri c’era poi il “Crocevia” di Via di Villa Albani, della Jullia Ulloa, di Inghe e di tante altre consorelle missionarie laiche, che sapevano accogliere senza barriere ideologiche e con rispetto dell’impegno politico, ciascuno che si affacciava da loro, studente dai paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.
C’era pure l’ “Approdo Romano”, in Via San Martino della Battaglia vicino a Piazza Indipendenza, animato dal compianto don Oddo Taccoli, figura di sacerdote romano indimenticabile, e dalla solerte “Bidi” della famiglia dei Marchesi Sacchetti e di altri nobili romani, esemplari di una solidarietà spicciola ed efficace, che dava anche il senso dell’ospitalità familiare, che spingeva le persone accolte a dare un corrispettivo elevato nel segno della dignità umana di cui ciascuno è portatore.
In questo mondo studentesco Rodrigo Jaimes Hidalgo era protagonista, anche se considerato qualche volta difficile, per le sue intemperanze oratorie. Ma Rodrigo sapeva stare con tutti, e la sua vita è la dimostrazione che con le autorità ecclesiastiche, con le autorità politiche, con le personalità della cultura, sapeva stare e sapeva dire la sua.
Sono stato al funerale di Rodrigo e avevo voglia di dire a tutti i presenti: “Questo è un momento magico! E la magia di Rodrigo siete voi tutti, voi così numerosi, così commossi, qui presenti”.
Oggi ricordiamo Don Remigio Musaragno, un missionario in Patria. Questo sacerdote che veniva da Treviso e da Biella, cultore di Rosmini, della filosofia e della teologia, ma che, alunno dell’Almo Collegio Capranica, si era trovato all’Università Gregoriana – e a motivo di obbedienza al suo Vescovo e secondo le necessità della sua Diocesi – si piegò al Diritto Canonico, per divenire funzionario del Dicastero Missionario della Chiesa, appunto di Propaganda Fide. Il lavoro affidatogli era di rispondere concretamente a una impellente domanda dei Vescovi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, che chiedevano aiuto e solidarietà per i giovani laici che essi inviavano a prepararsi nelle università italiane, per essere protagonisti poi dello sviluppo morale, sociale e politico dei loro Paesi. Le sue realizzazioni fondate e dirette per tutta la vita ne danno testimonianza.
Don Remigio si trasformò in missionario in patria, un missionario particolare, intelligente e formativo, che aveva una fede illimitata nella cultura e peculiarmente nella cultura universitaria, per aver il meglio, e per poter costruire l’uomo del mondo, vero realizzatore di pace e di giustizia, protagonista nel progresso dei popoli.
Sono migliaia coloro che devono a lui una laurea e un’alta professionalità acquisita in Italia, di cui a Roma molti, in migliaia negli anni, sono stati accolti nel Centro Internazionale Culturale “Giovanni XXIII”, che egli aveva realizzato nel palazzo di Ponte Sisto, messo a disposizione dalla Diocesi di Roma e dalla Santa Sede.
E tutti dobbiamo un grazie a Don Remigio Musaragno per il suo esempio sacerdotale veramente universale, per il suo amore verso tutti e verso ciascuno al di là delle religioni e delle razze e delle ideologie.
Luciano Montemauri
Ciao.
ReplyDeleteEro loro amico da circa quarant'anni e non sono riuscito ad essere presente al momento del loro trapasso: non me lo potrò mai perdonare.
ReplyDeleteQuanti incontri conviviali, quante battaglie e preghiere comuni.
E, poi, la sentita concelebrazione di don Remigio al mio matrimonio, in segno di profonda e sincera amicizia. Le sue indimenticabili parole scritte con il cuore sui libri, mai scelti a caso, regalatimi in occasione dei miei compleanni, ad imperitura memoria di una presenza viva ed attenta ai miei bisogni, alle mie inquietudini.
E che dire, caro ed indimenticacile Rodrigo, del tuo trasporto verso i più deboli ed i sofferenti, me per primo, quando, incontrandoci dopo molto tempo, quasi sempre per caso, sembrava di esserci appena lasciati la sera prima, tanta e tale era la tua prossimità nel rivedermi, magari nelle immancabili difficoltà della vita, a cui ti offrivi sempre di trovare una soluzione con un affetto autenticamente fraterno e solidale.
Ora non ci siete più, ma sento ancora più forte la vostra voce, il vostro incoraggiamento ad andare comunque avanti secondo la volontà di Dio, unica certezza della nostra vita, da ascoltare, come mi scriveva don Remigio, in silenzio, nel silenzio della nostra anima, facendo tacere le proprie passioni, anche i propri desideri, perché solo quello che dentro di te senti di dover fare, proprio quella è la volontà di Dio, perché Egli è padre e se Gli chiedi pane Egli non ti dà pietre.
In questa temperie di spirito, un principio di vita ho saputo trarre dalla vostra, pur luminosa ed edificante, assenza dai miei perduti giorni, quello secondo cui l'amicizia, come l'amore, non si professa, ma si dimostra.
Resterete sempre nel mio cuore.
Vincenzo Varriale
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